Ibraihma, i figli nati e cresciuti a distanza: dopo 16 anni li rivedrà. «Italia un Paese razzista» - CorriereFiorentino.it

2022-08-13 14:05:56 By : Ms. Dennise Wang

Quel giorno c’era il sole, o forse no. Quel giorno faceva caldo, o forse no. Ibraihma non ricorda se quel giorno c’era il sole o faceva caldo. Però ricorda il giorno: 6 agosto 2006. Marchiato nell’anima. Ricorda il luogo, aeroporto di Dakar. Sua moglie era incinta del secondo figlio, un pancione di cinque mesi. Ibrahima lasciava il Senegal, direzione Europa con un visto turistico . C’era una famiglia allargata da accudire. Lui era pescatore, aveva due barche. Ma nell’Oceano Atlantico c’erano sempre meno pesci, mangiati dai pescherecci internazionali. Divoravano tutto, affamavano i piccoli pescatori. Che così partivano, come Ibraihma. Disposti a tutto, pur di sfamare la famiglia. E allora ecco l’aeroporto, l’abbraccio con la moglie, il bacio alla piccola Dege che aveva 3 anni. E quella carezza a Osman, ancora in grembo. «Volevo partire per un anno, fare un po’ di soldi e poi tornare a casa». Ibrahima non è più tornato . È ancora qui, dopo diciassette anni, a lavorare in nero per le strade d’Italia. Ibraihma non ha mai visto suo figlio, che oggi ha diciassette anni. «L’ho visto crescere su Whatsapp» . Vorrebbe spiegare, vorrebbe tentare di spiegare. Ma forse no, spiegare non si può. E noi vorremmo capire, capire come può, un padre, veder crescere un figlio a distanza. «Ricordo quando è nato, mia moglie mi mandò la foto per posta elettronica». Ancora i cellulari non erano così smart. Poi il biberon, i primi passi, quelli li ha visti su Skype, in diretta ma a distanza di seimila chilometri. «Ero ancora convinto che dopo qualche mese sarei tornato». E invece no, perché Ibraihma non trova un lavoro regolare. Lavapiatti, aiuto-cuoco, nelle cucine giorno e notte. Sempre in nero . Senza contratto sei clandestino. E se sei clandestino nessuno ti assume. Cortocircuito esistenziale: «Se tornavo in Senegal, non sarei potuto rientrare in Europa una seconda volta».

E allora sceglie di restare, a costo di non vedere più i suoi figli. La lontananza come abitudine. «Non avevo scelta, loro per sopravvivere avevano bisogno di me, se io tornavo li avrei condannati a un’esistenza senza niente, soltanto se io restavo in Italia loro potevano vivere». E quindi resta. Firenze diventa la sua città : «Sono arrivato qui perché c’erano alcuni miei amici». Inizia male la vita in Italia. «Ho cominciato come venditore abusivo per il centro storico della città, vendevo orologi, collane, portafogli, braccialetti, cinture. Acquistavo la merce dai napoletani che la facevano arrivare dalla Campania e la distribuivano ai senegalesi». Però guadagna qualcosa, manda tutto a casa. «Erano i primi mesi di vita di mio figlio, dovevo aiutare la mia famiglia» . Un giorno viene fermato dai vigili urbani in borghese. «Mi chiesero i documenti, ma ero clandestino, mi sequestrarono tutta la merce, mi fecero una multa, non l’ho mai pagata». Poi trova lavoro in un bar come aiuto cuoco. «Cucinare mi piaceva, quel lavoro non era male, chiesi di mettermi in regola ma il titolare non voleva». Rimane in quel bar per sette anni, sempre in nero, 500 euro al mese , ma non sempre. Non è semplice regolarizzare (e contrattualizzare) un lavoratore irregolare. Ci sarebbero le sanatorie, ma sono soltanto per colf, badanti, braccianti agricoli. E quindi Ibrahima non può essere assunto, però continua a lavorare. Poi il bar chiude, e trova lavoro in un altro bar vicino all’ospedale Careggi . Ancora in nero, ancora per pochi euro. E inizia quella rabbia, che ancora oggi si porta dietro. «Il proprietario del bar girava in Jeep e con un motorino Beverly 250, io andavo a giro a piedi e facevo la fame in cucina». Stringe i denti e lavora, nel frattempo i figli crescono. Ricorda quel giorno: «Mio figlio Osman mi guardava dentro uno schermo, mi indicò e mi disse papà. Mi venne da piangere , ma non piansi subito, davanti allo schermo sorrisi a mio figlio, quando spensi il computer mi misi a piangere». Succedeva spesso. Succedeva spesso che la notte non dormiva, restava sveglio a guardare il soffitto a pensare ai figli che crescevano ma che lui non vedeva crescere. «L’unico modo per aiutarli era vivere lontano da loro» .

Un paradosso, che Ibrahima sottolinea più volte, come a rimarcare che davvero quella era l’unica possibilità. Magari chissà, magari era meglio tornare, lasciare tutto, lasciare l’Italia, lasciare il lavoro, meglio poveri ma in famiglia: «No – s’infervora – se fossi tornato a Dakar i miei figli avrebbero fatto la fame, non potevo tornare a mani vuote, sarebbe stato un doppio fallimento» . Mentre parla si guarda l’anello argentato all’anulare destro: sopra, ci sono le sue iniziali. Si aggiusta il cappello di stoffa che tiene insieme le sue lunghe treccine. Lo dice senza paura: «L’Italia è un Paese razzista, altrimenti non avrei vissuto diciassette anni lontano dai miei figli» . A Firenze ha perso molti amici. Prima Mor Diop e Modou Samb, i due connazionali ambulanti uccisi nella strage di piazza Dalmazia nel 2011, freddati a colpi di pistola da un militante fascista. Poi Idy Diene, freddato con un proiettile sul ponte Vespucci. Anche lui era un ambulante. «Era uno dei miei migliori amici, ci vedevamo tutti i giorni, condividevamo i nostri problemi, parlavamo dei nostri figli». Quel giorno la rabbia di Ibrahima esplose. Non soltanto la sua. Nell’omicidio di Idy, riversò tutte le sue frustrazioni. E cominciò a scendere in piazza insieme agli altri senegalesi che gridavano basta razzismo. «A quelle manifestazioni ero sempre in prima fila» .

E nel frattempo gli anni passano, diventano cemento. «Ma non è mai passato un giorno che non abbia sentito uno dei miei figli al telefono». Prima Skype, poi è arrivato Whatsapp, adesso è più facile. «Mio figlio maschio è diventato più alto di me» . Anche se è lontano, non rinuncia ad essere padre dei sue due figli: «Ho insegnato loro lo spirito di sacrificio, a non fare male a nessuno, ad essere sempre onesti, a pregare cinque volte al giorno» . Proprio come lui, che prega inginocchiato verso La Mecca nella sua stanza in affitto a 250 euro al mese. Tutto quello che guadagna, finisce a Osman e Dege. Tira fuori dalla tasca tre fogli, sono transazioni al Western Union da 40 euro l’una, fatte negli ultimi tre giorni. «Ogni volta che mi avanza qualcosa nel portafogli, lo mando a casa». A volte non mangia: «È successo anche pochi giorni fa , era caldo, ho preso un pezzo di pane al supermercato e ho saltato pranzo e cena, quello che ho risparmiato è andato a loro». Il risultato è qui nel suo telefono, nella foto di sua figlia con un turbante colorato in testa e il diploma in mano. «Ho speso 1.800 euro all’anno per mandare i miei figli a scuola». Adesso la più grande studia medicina. Non solo soldi, anche vestiti, scarpe, gioielli. «Ogni anno riempio un pacco di cose e gliele mando dal porto di Livorno».

Negli ultimi anni Ibraihma ha lavorato anche nelle discoteche. «Faccio il buttafuori, anche qui mi pagano in nero». Lui è clandestino, se la polizia lo ferma, rischia l’espulsione : «Mi hanno fermato almeno quindici volte in tutti questi anni, qualche volta sono finito in questura per due giorni, mi hanno trattato come un cane». Poi però è tornato libero . Adesso c’è una speranza in più. Con l’ultima sanatoria del 2020, è stato regolarizzato come collaboratore domestico da una signora italiana. Quattro ore al giorno di pulizie in casa. Così ha avviato la domanda per il permesso di soggiorno, che però ancora non è arrivato. Questione di burocrazia, ma nei prossimi mesi potrebbe arrivare davvero, per la prima volta dopo diciassette anni. Ibrahima non s’illude, ormai ha imparato a non farsi ingannare. Però ci crede. E di una cosa è certo: «Il giorno che mi arriverà il permesso di soggiorno, quello stesso giorno comprerò il biglietto aereo per Dakar» . E così tornerà in Senegal. E vedrà suo figlio per la prima volta.

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