2019, l’anno in cui il Liverpool diventò la «squadra totale» (a dispetto di tutti i dogmi del calcio) - Corriere.it

2022-10-08 21:15:43 By : Ms. Jianfeng JIN

Il Liverpool che ascende per la prima volta sull’Himalaya calcistico al quarto tentativo e rimpatria in fretta e furia non per rifiatare e festeggiare, ma per liquidare le Foxes e i Wolves - le Volpi e i Lupi - in Premier, non è solo uno dei migliori team-Reds di sempre. È un caso esemplare su come si possa costruire una squadra per approssimazioni e ritocchi a vari livelli, fino a conferire al «sistema di gioco» prescelto (e alla filosofia che lo informa) una coerenza interna così elevata da renderlo quasi inaffrontabile. Seguire questa costruzione non è meno emozionante che vederne l’esito, lungo una parabola scomponibile in quattro fasi, l’una trascorrente nell’altra come le sequenze di una metamorfosi.

Fase 1 - La società, gli algoritmi, Ulla Sandrock

Come ogni costruzione calcistica a lunga visuale, anche quella del nuovo Liverpool parte con un disegno societario, in questo caso coincidente con un break proprietario: quello del Fenway Sports Group, che rileva il club dopo una sorta di asta fallimentare nell’ottobre 2010. Al momento della rilevazione, l’azionista di maggioranza del Fenway, John W. Henry II, è un magnate i cui successi sono dovuti in larga parte all’intelligenza artificiale: su un versante, si è arricchito grazie a un algoritmo in grado di prevedere le fluttuazioni di mercato dei semi di soia; in ambito sportivo, ha copiato le statistiche del «metodo Moneyball» (vedi libro di Michael Lewis e film di Bennett Miller sul successo del team di baseball degli Oakland A’s) per gestire i suoi Boston Red Sox, con cui vince tre World Series. Pensa così di estenderne l’adozione al calcio e ai Reds: nell’immediato, con l’acquisto di un 20enne del Sunderland («un certo» Jordan Henderson) in quanto leader nella statistica del recupero palloni (un po’ come sarà per Kanté dal Caen al Leicester di Ranieri); poi (2012), con l’allestimento di uno staff di ricerca capitanato da Ian Graham, un giovane fisico con dottorato a Cambridge, e composto da una batteria di altri scienziati: l’astrofisico Tim Waslett, il matematico Dafydd Steele e il fisico delle particelle Will Spearman, che al Cern ha contribuito allo studio del Bosone di Higgs.

Da lì in poi, Graham e i suoi saranno decisivi non solo nella messa a fuoco degli avversari (pregi e punti deboli), ma soprattutto nello scouting, coi giocatori selezionati (entro un database mondiale di 100.000 unità) in rapporto alle loro caratteristiche atletico-tecniche e alla loro compatibilità-integrabilità nel sistema-Reds. Così arriveranno quasi tutti i talenti degli ultimi anni, a partire da Mané e Salah, o da Coutinho, che pur «fallendo» ad Anfield renderà un’immane plusvalenza (pagato 15 milioni, verrà rivenduto al Barça per 160). E così verrà scelto, nel 2015, anche Jürgen Klopp, paradosso dei paradossi per un tecnico (lo ricordano tutte le biografie) a lungo duramente scettico verso i contributi statistico-analitici applicati al calcio.

Eppure, il placet algoritmico di Graham rimarrebbe quasi certamente un’intenzione se non arrivasse quello affettivo («viscerale») dell’assistente sociale e scrittrice per ragazzi Ulla Sandrock, seconda moglie di Klopp. L’anno prima - lo ha raccontato di recente Klopp stesso a Phil Thompson, giocatore cult dei Reds - Ulla aveva bloccato come «inopportuno» il trasferimento del marito al Manchester United post- Ferguson e post-Moyes, aprendo così la strada a Van Gaal; mentre avalla l’offerta dei Reds, forse presagendo una compatibilità biochimica riassunta nell’assonanza Klopp-Kop, la curva di Anfield. Oggi, la fusione armonizzata tra il «freddo» lavoro dello staff di Graham (che dice di non guardare i video dei giocatori per non confondersi, valutandoli come avatar numerici) e quello «caldo» del tecnico (che trasmette la sua visione e la sua affettività ai giocatori in carne e ossa, all’ambiente, ad Anfield) è un tratto acquisito del club. Ma, come s’è visto, in un percorso tutt’altro che segnato.

Fase 2 - La stagione 2015-16 ovvero la «presa di Anfield»

Klopp arriva a Melwood (mitica sede del training) l’8 ottobre 2015, subentrando a Brendan Rodgers e alla sua semina illuminata quanto sfortunata (nella stagione precedente ha perso nelle ultime, lunari partite una Premier già vinta ). La conferenza-stampa di presentazione è insieme un atto di onestà un capolavoro di dissimulazione: Klopp, per contrappasso ironico-sarcastico a Mourinho (che si era insediato al Chelsea come «Special One»), si definisce «Normal One», lasciando l’attributo di «Special» al club e alla sua Storia. Ma fin dalle prime sedute di training e dai primi match, tutti capiscono che lo stile fiammeggiante di «Kloppo» è tutto fuorché ordinario e rassicurante.

In quella prima stagione di ambientamento-adattamento da montagne russe, da diagramma altamente instabile sia per lui (che verrà sottoposto ad appendicectomia nel febbraio 2016) che per la squadra, emerge subito il tratto dominante: Klopp è davvero il predestinato, in quanto coach in grado di riportare i Reds alle altezze agonistiche, estetiche ed emotive dei grandi Liverpool tra i ’60 e gli ’80, quelli del Padre Fondatore Bill Shankly e del «Quiet Genius» Bob Paisley, a lungo l’unico vincitore di tre Champions. Il match della rivelazione - già nella gallery di Anfield - è quello del 14 aprile 2016 (quarti di Europa League) contro gli ex del Borussia Dortmund, passati nelle mani di Tuchel (che aveva già rimpiazzato Klopp al Mainz): dopo un’andata promettente (1-1 a Dortmund) i Reds vanno sotto due volte in modo che sembra irrimediabile, prima 0-2 poi 1-3. Invece, grazie a tre gol in 25 minuti (quello decisivo su stacco di Lovren al 91’) i Reds rimontano e passano, con Klopp che al fischio finale scioglie i suoi tipici attacchi da trance simil-epilettica (a occhi bianchi e denti digrignati) in un’estasi placida e sorridente, tutt’uno con la tuta bianca da Gandalf redivivo.

Lì, in quel momento, il «Normal One» si impossessa di Anfield e dei suoi oggetti magico-mistici, a cominciare dal cancello vittoriano (simile a quello del film «Quarto potere») su cui si staglia il cesello della scritta «You’ll Never Walk Alone» («Non camminerai mai solo»), titolo dell’inno tributato (come il cancello) proprio a Shankly. E questo nonostante l’anno si chiuda con due finali perse, due tra le tante della carriera di Klopp (la stessa Europa League contro il Siviglia di Emery, la Coppa di Lega conto il City di Pellegrini) e con un bilancio di Premier (nell’anno del Leicester «shakespeariano» di Ranieri) dai dati «zemaniani»: ottavo posto con 16 vittorie, 12 pareggi e 10 sconfitte, 63 gol segnati e 50 subiti. Quanto al versante filosofico-tattico (al «design» della squadra), anche se sono già arrivati diversi giocatori che attraverseranno tutto il quinquennio (in difesa Lovren e Gomez, a centrocampo Milner e lo stesso Henderson, in avanti Firmino, Lallana e Origi), Klopp in questa fase si limita soprattutto a travasare le conoscenze maturate a Dortmund: tutto si fonda su uno dei suoi mantra identitari, cioè sul «gegenpressing» (la riconquista immediata della palla per la ripartenza o contro-ripartenza) come «playmaker della squadra», un po’ l’equivalente dello «spazio come centravanti» nella visione di Guardiola. Il resto è lontano. Decisivo (per la maturazione del Klopp tecnico e per lo sviluppo del progetto-Reds) sarà proprio il confronto-scontro molecolare col City di Pep, che irrompe sulla scena l’anno dopo.

Fase 3 - Dall’inizio della coevoluzione col City (2016-17) al «trauma di crescita» di Kiev (maggio 2018)

L’impatto del City di Guardiola sulla Premier non è immediato a livello di risultati (terzo posto nel torneo vinto dal Chelsea di Conte, fuori in tutte le Coppe), ma lo è già a livello «sistemico», perché la (ri) modulazione del suo possesso-fraseggio nel contesto del calcio-rugby britannico («non si possono pressare le palle alte» confesserà sconsolato in un’intervista a Thierry Henry) creerà lentamente un organismo inedito, meno forte del Barcellona ma che del Barcellona costituisce un’evoluzione e una sintesi. Il punto è che l’antagonista primario di quell’organismo non sarà - come secondo attese e pronostici - lo United di Mourinho, a prolungare il duello degli anni precedenti (culminato nella catena feroce dei Clásicos), ma proprio il Liverpool di Klopp, in una competizione prima sotterranea e poi via via sempre più «in chiaro», che si tradurrà - per feedback reciproci, proposte e risposte o meglio controproposte, a formare un fugato infinito - in una sorta di co-evoluzione darwiniana dei due team, fino alla messa a punto di due «intelligenze collettive» sempre più complesse e aggressive, camuffate da squadre di calcio. Da una parte, Pep dà forma a un team al grafene, il materiale leggero e tenace scoperto dai Nobel Gejm e Novoselov proprio all’ateneo di Manchester: un possesso-fraseggio con costruzione dall’area che elabora i movimenti sincronici del suo gioco posizionale, con e senza palla, affinandoli in un «legato» da archi dei Berliner.

Dall’altra, Klopp - che ha sempre riconosciuto le capacità «orchestrali» e la «complessità unica» del calcio di Pep, ma distanziandosi da quella «canzone silenziosa» - intensifica il suo calcio heavy-metal, da Rammstein (gruppo-cult del Dortmund) o - come dice lui stesso - mimetico «della batteria degli Iron Maiden»: la ricerca di una «ripartenza permanente» condotta al limite del parossismo, coi tempi di recupero-palla ridotti dai 6 secondi del Pep a 5, poi addirittura a 2 (che è in verità il tempo di «riposizionamento» per chiudere l’uscita di un avversario e preparare una contro-ripartenza) e un’accelerazione-stilizzazione drastica della ripartenza-penetrazione.

City-Liverpool è stato finora (difficile dire se lo sarà ancora) un clash tra i caratteri che David Foster Wallace vedeva unificati nella sintassi del gioco di Federer («Mozart e i Metallica»). Anche se, in quella competizione-coevoluzione, ognuno ha fatalmente mutuato tratti dell’altro, come è emerso negli scontri diretti: il City ha dovuto irrobustire fase difensiva e fisicità (e qualche volta persino segnare di ripartenza o su cross); mentre il Liverpool ha sua volta lavorato sul possesso per affrontare difese chiuse e in certe ripartenze-laser dei tre velociraptor d’attacco (Mané-Firmino-Salah) ha mostrato una «leggerezza» da City.

Ma più in generale, i due anni che portano alla finale di Champions a Kiev (di nuovo: senza alcun successo, anche se con due quarti posti in Premier e un notevole miglioramento nel differenziale gol fatti-subiti, rispettivamente +36 e +46, dal +13 dell’esordio) servono a Klopp e allo staff soprattutto per la messa a punto di un equilibrio morfologico-biomeccanico dell’ensemble, ovviamente funzionale al gioco.

A Liverpool, Klopp e Graham selezionano infatti nel tempo un team composto soprattutto da «minions» («scagnozzi»), con riferimento alle creaturine umanoidi del ciclo di «Cattivissimo me». Come si nota in Rete, per la verità, il rapporto tra Klopp e i minions è legato, per via del giallo limone, al periodo di Dortmund (vedi le caricature di Reus o del tecnico stesso, sosia peraltro del dottor Nefario, lo scienziato pazzo che li ha creati): ma quella squadra aveva un’altezza media molto elevata (184,5 cm) in quanto composta da molti longilinei. I veri «minions» sono i tanti Reds di questi anni, nel senso di un folto gruppo di giocatori dalla morfologia modulare: salvo eccezioni (portieri, alcuni centrali di difesa o centrocampisti, punte come Firmino e Origi) tutti gli altri hanno complessione comune (tra 168 e 175 cm e tra 65 e 72 kg). Una morfologia da brevilinei - spesso palestrati - al servizio di una precisa biomeccanica: un rapporto resistenza-velocità che garantisca continuità di pressing, forza nei tackle e strappi per il maggior tempo possibile del match. Il che spiega anche la differenza di stile/sintassi rispetto al Dortmund: là i due-quattrocentisti (Gundogan e Reus, Sahin e Lewandowski) per ripartenze più sinuose ed elastiche: qui centisti (vedi i velociraptor del tridente) per affondi più brutali e rettilinei.

Alla lunga, però, questa prevalenza di «minions» (o, se si preferisce, di «orchetti» da «Signore degli anelli» o da pesi medi rispetto ai tanti welter del City, tanto che gli scontri diretti sembrano dei match Leonard-Duran o Leonard-Hagler) produce un team - un gioco - prigioniero del proprio furore, che difetta di equilibrio, completezza e varietà di gioco. Viene perciò integrata da morfologie diverse: da brevilinei «skinny» dell’Academy come il meraviglioso Trent Alexander-Arnold, a lungo ritenuto «troppo fragile» per complessione e corsa; o da giganti che uniscano alla forza l’eccellenza tecnica e posizionale, come Van Dijk (che arriva nel 2017-18) o Alisson e Fabinho, che arrivano nel 2018-19: il primo preso come soluzione definitiva al «problema strutturale» e causa prima della sconfitta-Champions col Real ovvero del «trauma di Kiev» (lo svanito Karius); il secondo come surplus di centrocampo in quanto sintesi unica di corsa, tecnica e razionalità nella distribuzione. Ora, la configurazione biomeccanico-morfologica è pronta per l’ultima sequenza della metamorfosi: se Klopp ha spostato la «foresta» (intesa come «foresta che cammina» dell’identità tedesca, metafora della dinamica dei suoi team) dalla «sua» Selva Nera a una Liverpool assimilata a Sherwood (impazzano i fotomontaggi che lo figurano come Robin Hood), è venuto il tempo di plasmarla in un sofisticato bosco ceduo.

Fase 4 - Dalla stagione 2018-19 a quella in corso: un nuovo assistente (olandese) e la «nuova sintesi» del gioco

La grande stagione 2018-19 dei Reds (vittoria in Champions al Wanda Metropolitano col Tottenham, secondo posto in Premier dietro al City-monstre 2 con ulteriore incremento di differenziale reti a +67) viene da molti ridotto, più che ricondotto, proprio alla mutata capacità difensiva del team, dovuta soprattutto all’accostamento tra Van Dijk (maestro nel difendere in quell’«uno contro uno» che Badstuber del Bayern descrive come «la grande arte») e la sicurezza tecnico-psicologica di Alisson. Tutto giusto e legittimo, se non fosse che questa lettura oscura variazioni di sistema altrettanto se non più decisive, possibili grazie al quel valore aggiunto di qualità atletico-tecnica. Una buona guida per penetrare nell’ultima fase dell’evoluzione Reds è l’olandese Pepijn «Pep» Lijnders (l’abbreviativo quasi come esorcismo anti-City), 36enne addetto al training «didattico» stabilmente vicino a Klopp dal giugno 2018 (ma già alle giovanili dal 2014, anche lui dopo un mancato approdo allo United), cioè dal periodo sùbito successivo all’uscita di scena di Zeljko Buvac, il tattico bosniaco simile in certe foto a Severus Piton-Alan Rickman, l’ambiguo mago della Hogwarts di «Harry Potter». Una staffetta non per mansione quanto per peso, col nuovo arrivato così vicino al coach da insidiare persino il carisma e l’influenza di Peter Krawietz, «secondo» di Klopp da 20 anni. Sintomatico, al riguardo, che i due giochino 2-3 volte la settimana e anche di più interminabili partite di paddle (mix di tennis e squash) nella gabbia di vetro costruita a Melwood, quasi un’eco della Footbonaut usata da Kloppo al BVB per gli esercizi psicocinetici. Match che diventano anche il condensato letterale e metaforico del nuovo Liverpool, dato che non solo sono momenti in cui Klopp e Ljnders «staccano» delegando all’inconscio l’elaborazione di problemi tecnico-tattici, ma rispecchiano e simboleggiano (in quanto giocati senza soluzione di continuità, la palla sempre rimessa in gioco dai rimbalzi) l’idea- il design- del team in campo, macchina di gioco incessante e avvolgente.

In una lunga intervista a Arthur Renard del Guardian , Lijnders ci fa entrare come nessuno nella fucina-officina dei Reds, da ogni punto di vista. Sottolinea, ad esempio, come la disciplina e il rigore del gruppo non siano dovuti a imposizioni esterne (a strategie di premio/punizione) ma al traino di giocatori «adulti» come Van Dijk, Henderson e Milner. Oppure, ritorna al match-capolavoro dell’anno (Liverpool-Barça 4-0) per rimarcare sia il talento di Klopp nel far mutare il paesaggio psico-agonistico (le parole nello spogliatoio del Camp Nou, ai suoi appena sconfitti per 3-0: «C’è una solo squadra al mondo capace di ribaltare questo risultato contro il Barça, e quella squadra siamo noi»), sia l’importanza del dettaglio molecolare (l’insistenza prepartita sulla velocità di azione dei raccattapalle, infatti decisiva nel gol del 4-0, cioè nel fornire il pallone a Alexander-Arnold che imbecca sùbito Origi).

Ma soprattutto - parlando del proprio apporto specifico - Lijnders ci immette nel core tattico-agonistico del team, come quando descrive certe esercitazioni specifiche: il rondo 5 contro 2 detto «Milly» (nickname di Milner, il giocatore che lo esegue meglio), in cui 2 giocatori devono intercettare la palla fraseggiata dai 5 «entro 6 passaggi»: o il metamorfico 3 contro 1, in cui il pressatore che intercetta diventa uno dei 3 palleggiatori e il palleggiatore che l’ha persa diventa subito il pressatore, sotto le grida ossessive di Klopp, Krawietz e Lijnders stesso («Go, get it back, don’t stop!»). Sono esercitazioni - la seconda in particolare - che invitano il giocatore «a non soffermarsi sull’aver perso il pallone, quanto a concentrarsi sùbito sulla riconquista», e che spiegano - riassume Lijnders - la vera matrice del «gegenpressing», «attitudine» che i giocatori devono metabolizzare - individualmente e collettivamente - «non con la testa» ma con l’adesione emotiva. In fondo, tutto questo sta alla visione-Guardiola come il concavo al convesso: là dove Barça e City si addestrano soprattutto per «eludere» il pressing (o addirittura giocare «sul» pressing, attirandolo per ritardare lo scarico e mandare l’avversario «fuori giri»), i Reds si addestrano soprattutto per rendere il pressing costitutivo come il respiro; come il proprio respiro che inibisce quello dell’avversario. È questo a chiarire perché i Reds vincano (quasi) sempre i momenti-flipper a metà campo, le «fibrillazioni» di palla-contesa, da cui spesso irradiano e ramificano poi le loro transizioni assassine; è qui che si tocca con mano l’idea di «ripartenza permanente», la «batteria degli Iron Maiden».

Attenzione, però. In questi passaggi Lijnders, pur riassumendo magistralmente come l’«identità» dei Reds sia in primo luogo l’«intensità», le affianca un altro attributo-chiave per descrivere l’ultimo Liverpool: «flessibilità», attributo cui si concede troppo poca attenzione. Nel corso del 2019 - diciamo dall’ultima sconfitta in Premier, il visionario 2-1 all’Etihad, al formidabile fine anno - i Reds hanno completato una «revisione» di principi, assetto e automatismi già incubata nell’anno precedente, in larga parte criptata e controintuitiva. Il dato da cui partire è quello della corsa: com’è noto, le squadre di Klopp - fino a tutto il periodo al Dortmund e al primo Liverpool - hanno mostrato in quest’ambito una superiorità debordante, correndo spesso 10 km in media più dell’avversario (che si traduce, a livello di dinamismo, in un giocatore in più). Negli ultimi mesi non è sempre così, anzi. I dati di molte partite (soprattutto in Europa) mostrano come quella superiorità si sia sensibilmente ridotta. E nei due match recenti col Salisburgo in Champions i Reds sono stati addirittura surclassati (pur vincendo tutte e due le volte): e questo non solo per aver prevalso nel possesso (com’è noto, chi fa più possesso di norma corre meno), ma anche perché gli austriaci sembravano per certi versi i Reds di tre anni fa, esuberanti-adrenalitici ma poco equilibrati. Inoltre, in diversi casi il Liverpool lascia all’avversario la prevalenza su tanti indicatori (possesso stesso, corner ecc.) ma mai o quasi mai sui tiri (totali e nello specchio). Esemplare la finale del Mondiale per club di Doha, dove il sorprendente Flamengo di Jesus li mette sotto su tutto, sia sugli indicatori prevedibili (possesso 53-47, calci d’angolo 7-5) che su quelli più sorprendenti (tackle riusciti 19-12; e palle intercettate 14-9), ma non, appunto sui tiri, dove i Reds dominano per 18-14 (6-3 nello specchio).

Tutto questo sta a indicare nell’insieme due variazioni strutturali, sotterraneamente congiunte: a) un assetto più «temperato» nei ritmi e nella copertura dello spazio, dovuto a un grande lavoro sulle sinergie-sincronie di squadra, cioè sulla (equi)distanza tra singoli e reparti, così come su posizioni e marcature preventive; b) la ricerca di atteggiamenti (possesso o pressing) e di soluzioni situazionali sempre più mirate, privilegiando la qualità sulla quantità, e - quando e dove possibile - l’economia sull’esuberanza. Intendiamoci: il Liverpool continuerà a fondarsi sull’intensità: continueremo a vedere non solo momenti-heavy di pressing feroce e momenti-jazz a sciame con uscita fluida di due o più o giocatori: quei momenti, cioè, in cui la squadra gioca tra i confini delle fasi basiche (possesso/non possesso, transizione offensiva/difensiva) come certi musicisti suonano «tra le note». Ma quell’intensità ora è per così dire «diffusa», distribuita (nel senso che la pressione sulla palla è estesa ai possibili sviluppi dell’azione) e quei momenti possono essere alternati ad altri: non sempre è necessario recuperare la palla «il più velocemente e il più in alto possibile» (come recita il dogma-Klopp), ma anche in tempi meno frenetici e più in basso; così come la ripartenza non deve essere per forza chiusa in 15-20 metri, ma può distendersi in linee più larghe e solenni. Sintesi di tutto questo: il 2-0 nel recente Liverpool-City 3-1, dove (al netto dei deficit Citizen: pressing allentato e orrore in marcatura Angelino-Fernandinho) la V vertiginosa del cambio di fronte in uscita e del cross (Alexander-Arnold per Robertson, Robertson per Salah) è di una perfezione - di una necessità - da quadro astratto.

Questo team con nuovo motore e nuovo design, di una sua peculiare «classicità» (in cui la «ripartenza permanente» è coniugata alla «palla coperta permanente», tale che in ogni punto del campo - su ogni pallone - l’avversario sembra patire la gravità esercitata da tutto il Liverpool, una gravità costante e castrante) comporta molti vantaggi e qualche dazio. I vantaggi sono soprattutto di risparmio energetico: il rigore di sinergia/sincronia e gli automatismi comportano un minor accumulo di lattato (aspetto cui Klopp è sempre stato attento) e un minor dispendio neurobiologico (meno decisioni uguale meno metabolismo cerebrale uguale minor stanchezza mentale). Il dazio è soprattutto estetico: un calcio così vicino alla perfezione rischia di essere meno esaltante (lo erano di più - paradossalmente - i Reds fiammeggianti e imperfetti delle prime fasi) e un focus così elevato sull’efficienza-efficacia (senza mai sconfinare, sia chiaro, nel «risultatismo») può comportare l’abiura occasionale della propria identità: perché è vero che ad esempio la finale di Champions al Wanda è stata per i Reds il trionfo della programmazione, con l’azione iniziale di Mané per il rigore di Salah- sotto il sorriso compiaciuto di Graham in tribuna - calco di un «pattern» simulato nella criptata «prova generale» a Marbella contro il Benfica B (istruito a giocare come il Tottenham); ma è stata anche per larghi tratti (per una legittima «paura» di Klopp di perdere l’ennesima finale di Champions e l’ennesima finale tout court , riflessa in quella di Pochettino) una surreale successione di lanci a «perdere» senza nemmeno attacco della respinta, simile a un match di palla avvelenata.

Le molte «lezioni» prodotte dalla costruzione di questo Liverpool sono evidenti. Su tutte: l’importanza dell’avanguardia metodologica (dallo staff di Graham alla didattica di Lijnders, tutti elementi che farebbero rabbrividire il tecnofobo Allegri) e la continuità del disegno con un compatto gruppo di lavoro (Klopp ha non a caso chiesto e ottenuto la conferma di tutti nel contratto-plateau fino al 2024). Meno facile, invece, una panoramica sul rendimento a livello di breve-medio e lungo periodo. Sul breve-medio (cioè già da gennaio), potrebbero incidere fatalmente cali atletici e di tensione, allentamento d’attenzione o - come ricorda Jonathan Wilson - infortuni a giocatori vitali per il sistema (tipo Van Dijk), un po’ com’è successo al City; anche se, in compenso, bisogna calcolare l’ingresso di nuovi talenti come il giapponese Minamino, già abituato all’heavy-metal nel Salisburgo. Sul lungo periodo, il confronto con i Liverpool storici evocati in apertura è già cominciato: qualcuno, nel Merseyside, compara già il «socialista» Shankly con il «sinistrorso» Klopp, accanito anti-Brexit; o si domanda se i due terzini «totali» attuali (il «brasiliano» Alexander-Arnold e lo scozzese Robertson) siano meglio dei due leggendari Reds di Paisley, Phil Neal e Alan Kennedy. Ma le due prospettive temporali potrebbero unificarsi presto, all’arrivo della prima Premier (del titolo dopo 30 anni). A quel punto, ogni paragone sarà consentito, anzi naturale.

Autorizzaci a leggere i tuoi dati di navigazione per attività di analisi e profilazione. Così la tua area personale sarà sempre più ricca di contenuti in linea con i tuoi interessi.