La storia del basco Kangol, "il cappello con il canguro" più amato dai rapper

2021-12-27 10:48:00 By : Ms. Gina Wong

Da basco per le divise militari alle teste dei Beatles, fino ai rapper di Brooklyn: la lunga storia di un cappello di culto.

La storia raccontata in questo articolo avrebbe dovuto iniziare con i BTS e il video della loro Dynamite. L’imprevisto, e la conseguente decisione di cambiare tutto, è stato scorrere un album di foto d’archivio. Sarebbe bastata anche solo un’immagine presa a caso, un Helmut Lang x Louis Vuitton del 1996: edizione speciale di un box per vinili, ne conteneva 70, ritratto insieme al dj superstar Grandmaster Flash. Di nuovo la musica. Scorro un po’ di lato e trovo Liam Gallagher e Eminem, vado indietro e ci sono Missy Elliott, LL Cool J, Slick Rick, scatti dei primi B-Boy per le strade di New York, mai diventati famosi singolarmente ma canonizzati di diritto tra i simboli degli anni 80 americani.

E non finisce qui, perché in ordine sparso ci sono anche i Beatles, una Diana Spencer che era già l’icona pop Lady D, la divisione corazzata del British Army, Mary Quant e Pierre Cardin. Tutti, indistintamente, sotto lo stesso cappello Kangol. L’oggetto di culto del momento, lo stesso di 20 e 30 anni fa, era anche quello dei nostri genitori e, probabilmente, ne abbiamo almeno uno nei bauli che i nostri nonni hanno dimenticato in soffitta? La risposta è sì.

Nel 1918, di ritorno dal primo conflitto mondiale, l’ex soldato polacco naturalizzato francese Jakob Henryk Spreiregen, con il nome di Jacques Spreiregen, si trasferisce in Inghilterra a Cleator, dove avvia un’attività da importatore di baschi. Il successo è tale che in pochissimo tempo inizia anche a produrne. Il numero esiguo dei suoi lavoranti aumenta rapidamente con la richiesta e nel 1938 battezza il proprio marchio Kangol: la parola è inventata ma molti, ancora oggi, la attribuiscono a una crasi tra “knit”, “Angora” e “Wool”, che erano, e sono, gli elementi che contraddistinguono i modelli più noti.

Il prezzo estremamente popolare ne garantisce la diffusione, mentre lo stile, che ha quel fascino d’Oltremanica di cui i sudditi del Regno Unito finiscono sempre per innamorarsi, rende ogni pezzo più desiderabile di altri. È una sorta di marketing ante litteram, che ha la sua massima espressione durante la Seconda Guerra Mondiale, quando l’azienda diventa fornitore ufficiale per l’esercito - in ogni ritratto ufficiale, il generale Bernard Montgomery indossa il suo basco Kangol.

Finita la guerra, è la volta degli atleti che partecipano alle Olimpiadi del 1948, mentre agli anni 50 risale il 504 cap, per capirsi, quello adottato dai rapper di Brooklyn e dai signori dello streetstyle della Tokyo disegnata nei manga e nei libri di tendenza dei primi Duemila, quello che se da adolescente lo mettevi in provincia ti prendevano un po’ in giro e un po’ ti rispettavano perché dimostravi di avere il tuo stile. La stessa sorte è capitata al classico cappello “pescatore”, il secchiello, che nelle varianti in lana d’angora, appunto, a tinte pastello, è finito sulle pagine delle riviste di moda (rieditato sul finire del millennio in varianti viniliche), mentre in quelle più rigide, infeltrite e ben calato sugli occhi delle star da palcoscenico ha visto saltare folle oceaniche al ritmo incalzante dell’RnB, del funk e dell’hip hop.

Ai 60, per tornare su una linea temporale, risale il boom nel mercato USA, complice una sponsorizzazione a quei quattro ragazzi di Liverpool che scalavano le classifiche, altro espediente di marketing anticipato per garantirsi l’immediata riconoscibilità. Da un’incursione di fine anni 70 sui campi da golf, Kangol torna di forza sulla scena musicale, i nomi li abbiamo fatti in apertura e la lista ne potrebbe comprendere moltissimi altri. Nella decade dell’eccesso arriva anche il logo, quel canguro che non ha niente a che fare con il nome Kangol ma che proprio gli americani hanno eletto come animale guida, metonimia involontaria, chiedendo ai rivenditori “that kangaroo hat”.

Le campagne pubblicitarie del passato, quando l’illustrazione precedeva la fotografia, sono una somma di bon ton del cappello, la mano potrebbe essere quella di Eric Stemp o di René Gruau, quelle più recenti, una lettura del presente con il filtro garbato di chi sa di aver scritto molte delle pagine di costume degli ultimi 100 anni.