Enrico Vanzina: «Quando io e Montezemolo finimmo i soldi a Cortina. Steven Spielberg ci temeva»- Corriere.it

2022-06-25 01:19:19 By : Ms. Rico Ke

Abbiamo scollegato in automatico la tua precedente sessione

Puoi navigare al massimo da 3 dispositivi o browser

Per continuare la navigazione devi scollegare un'altra sessione

Da mobile puoi navigare al massimo da 2 dispositivi o browser.

Per continuare la navigazione devi scollegare un'altra sessione.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina, in diretta

Salva questo articolo e leggilo quando vuoi. Il servizio è dedicato agli utenti registrati.

Trovi tutti gli articoli salvati nella tua area personale nella sezione preferiti e sull'app Corriere News.

Lo sceneggiatore: «È dura andare avanti senza mio fratello. Sordi era il più grande amico di famiglia, al funerale di papà era straziante vederlo piangere. Verdone lo adoro, mi dispiace di non aver fatto un film con lui»

«Sulla scrivania ho tre foto di me bambino. Una con Totò, serio, impermeabile e cappello, che mi tiene per mano, avrò avuto due anni e mezzo. In un’altra sto in braccio ad Aldo Fabrizi vestito da guardia, noi in famiglia siamo tutti magri, lui così grosso mi faceva anche un po’ paura».

E la terza? «La più famosa, ci siamo io e Carlo in salopette, in mezzo Alberto Sordi con il cappello da cowboy, sul set di Un americano a Roma », racconta Enrico Vanzina , 73 anni, scrittore (12 libri, il primo fu Le finte bionde nel 1986, l’ultimo è Diario Diurno , 2011-2021 per HarperCollins: «Un racconto dell’Italia e degli italiani, di come sono cambiati: più cattivi, più tristi, rassegnati al presente»), sceneggiatore, regista e produttore di oltre 120 film, da solo o in coppia con l’amatissimo fratello Carlo — scomparso nel 2018 — re indiscussi della commedia all’italiana degli ultimi 45 anni e rotti, per di più figli di un mostro sacro come Steno (Stefano Vanzina), regista, sceneggiatore, vignettista e soprattutto Gran Maestro degli anni d’oro del cinema italiano più spensierato, dal Dopoguerra in poi. «Io nel Cinema ci sono nato, per me era normale, gli amici di papà facevano quello, ci si voleva tutti bene, come in una grande famiglia. Così capitava che uno impegnato come Michelangelo Antonioni andasse tranquillamente a cena con mio padre che girava le commedie. E che peraltro con Guardie e ladri nel 1952 vinse il Festival di Cannes, del resto la sceneggiatura la scrissero lui e Mario Monicelli con Ennio Flaiano e Vitaliano Brancati».

Totò era un vicino di casa. «Abitava a pochi passi da casa nostra, in via dei Monti Parioli — io però sono nato a piazza di Spagna — dove il nostro dirimpettaio era Mario Camerini. Nella vita era il principe De Curtis, che girava sulla Cadillac con le tendine. Papà è stato il regista di Totò per eccellenza. Si capivano, si piacevano. Un giorno sul set di Totò diabolicus (1962) lo vidi arrivare ancora vestito da donna. “Ah, quanto mi piace fare Totò”, esclamò».

Albertone praticamente uno zio. «Il più grande amico di famiglia. Ci mandò una cartolina da Kansas City. “A me m’ha bloccato la malattia”. L’ultimo ricordo che ho di lui è del giorno in cui morì. Ero in auto, stavo andando fuori Roma, tornai indietro. Davanti alla villa di Sordi era pieno di gente, di telecamere. Suonai. Mi aprì la sorella. “Vieni, vieni con me, Alberto ti voleva tanto bene, voglio farti un bel regalo”. Mi portò in una stanza. C’era lui disteso sul letto, cereo. Avrei voluto scappare, mi faceva impressione. Però mi tornò in mente di quando scherzava così: “Non ho paura della morte, io con quello lassù ci ho già parlato, ho prenotato una suite in Paradiso” e riuscii a sorridere. Al funerale di papà invece, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, vidi Alberto piangere a dirotto, nascosto dietro una colonna, straziante».

Quella sera con Renato Pozzetto però... «Io e Carlo avevamo appena girato con lui Luna di miele in tre e Pozzetto ci teneva a conoscere Sordi. Li invitammo a cena. Renato arrivò per primo, ansioso. Alberto venne accompagnato da Piero Piccioni. Gli presentammo l’ospite. Lui lo guardò ridendo di cuore come rideva solo lui. “Ma tu chi sei, caro? Sei Cochi o sei Renato?” Nei film era esattamente come nella vita. Un giorno Andy Warhol gli chiese come facesse a cambiare sempre personaggio. “Una volta ho il cappello da vigile, una volta da pompiere o da cowboy, ma sotto ci sono sempre io”».

Per voi bambini sarà stato uno spasso. «Ci divertivamo tanto con Walter Chiari che ci faceva correre, per Raimondo Vianello avevamo una passione totale, ma quello che ho amato di più è stato Paolo Panelli. A Castiglioncello, dove andavamo in vacanza grazie a Suso Cecchi D’Amico, noi, Sordi, Vittorio Gassman — con cui giocavo a tennis — il re assoluto delle scenette era lui, con Mastroianni che gli faceva da spalla».

Gloria Swanson vi regalò doghe ed elmi da antichi romani. «Aveva girato Mio figlio Nerone con Sordi, Vittorio De Sica e Brigitte Bardot che faceva Poppea. Papà disse a mio fratello: “Ringrazia la signora Swanson”, ma lui restava muto. “Su, dille grazie”. Silenzio. Poi Carlo lo tirò per il braccio. “Ma io volevo la Bardot”, protestò. Aveva già occhio per le belle donne».

Due predestinati, era scritto. «Mamma Maria Teresa, figlia di un ferroviere, era bellissima, però il cinema non le interessava. Ci mandò al liceo francese Chateaubriand, il più esclusivo. Ci sognava ambasciatori, ci ritrovammo a Manziana a girare con Lando Buzzanca».

E in vacanza con Luca Cordero di Montezemolo, a Cortina. «Finimmo presto i soldi e mi tornò utile aver studiato pianoforte, visto che mi ero innamorato di una dj del King’s. Mi proposi al titolare. Così, dall’una alle due di notte, suonavo Gino Paoli, Luigi Tenco, la paga bastava a mantenermi».

La prima sceneggiatura. «In realtà sono due. Avevo appena scritto Luna di miele in tre , ad Alberto Lattuada era piaciuto molto, mi chiese di buttare giù quella di Oh Serafina! insieme a Giuseppe Berto. Un’occasione incredibile, in ritiro a Capo Vaticano con lui, avevo 25 anni».

Nel 1976 scoppia la Febbre da cavallo con Proietti/Mandrake e Montesano/Er Pomata. «Da ragazzino frequentavo gli ippodromi, ero un gran giocatore, fu Camerini a portarmi alle Capannelle a 14 anni, poi continuai ad andare alle corse con la famiglia Giubilo. Ero un esperto. Scrissi il pezzo finale per Proietti, quello del processo davanti al giudice Adolfo Celi. Ricordo bene il giorno in cui girammo la famosa scena del “fischio maschio senza raschio” a largo Augusto Imperatore. Gigi è stato un grande amico, insieme abbiamo fatto viaggi meravigliosi, quando è morto ho provato un dolore fortissimo».

Quella volta che... «...che eravamo in vacanza a New York, una sera andammo all’Apollo Theater di Harlem a sentire Ray Charles, sarà stato il 1970. A un certo punto ci rendemmo conto di essere gli unici bianchi, si giravano tutti. Proietti mi guardò con un sorriso alla Mandrake: “Non so tu, ma io me la sto facendo sotto”».

Il film del cuore, dei suoi? «Direi Sapore di mare del 1983. Per il produttore Claudio Bonivento avevamo appena fatto I fichissimi con Diego Abatantuono e Jerry Calà, che era andato molto bene. Gli proponemmo questo, accettò, fu coraggioso. Un film molto personale, autobiografico, raccontava delle nostre estati a Castiglioncello. Quell’anno il David avrebbero dovuto assegnarlo a noi, ma in fondo, per quanto è stato amato, è come se lo avessimo vinto. Sono molto legato a Il cielo in una stanza , con Elio Germano, buffo, sentimentale. E considero Il pranzo della Domenica l’ultima vera commedia italiana».

Incassi stellari. «Ho calcolato che i nostri film, nel complesso, hanno fatto guadagnare sei o settecento milioni di euro, non a noi eh. Una volta Richard Fox della Warner, con cui nel 2002 abbiamo fatto La Mandrakata , mi riferì quello che gli aveva detto Steven Spielberg: “In Italia mai fare uscire un film insieme a quello dei Vanzina”. Avrei voluto correre a genuflettermi davanti a lui».

Con Carlo avete mai litigato per un film? «No, perché avevamo ruoli distinti, io scrivevo di più e sul set andavo poco. E poi di solito io la pensavo come lui e lui come me».

L’ha sempre protetto. «Ero il più alto, il maggiore, l’unica volta nella vita che ho litigato allo stadio è stato per difendere lui. Il mio dolore più grande è di non averlo potuto tenere al riparo dalla malattia e dalla sofferenza, ero convinto che me ne sarei andato prima io. Continuare da solo è difficile, però non posso mollare. Come nel menu di un ristorante c’è la specialità della casa, nel cinema dei Vanzina c’è il racconto della vita attraverso i nostri occhi, ora solo i miei. E penso: questo come l’avrebbe fatto Carlo? Come l’avrebbe girato papà? Sono sempre e comunque qui con me».

Carlo Verdone, altro amico fraterno. «Ci siamo conosciuti tardi, ma tra noi c’è un’amicizia meravigliosa. Il mio unico rimpianto è di non aver mai fatto un film con lui».

Già, perché no? «Perché Carlo Verdone fa i film con Carlo Verdone. Però spero che ci riusciremo, prima di rimbambirci del tutto».

E poi c’è Christian De Sica. «I Vanzina e i De Sica sono sempre stati legatissimi, papà nutriva un affetto infinito per Vittorio e viceversa, tant’è che quando morì — e per un cortocircuito burocratico non riuscimmo a seppellirlo dove gli spettava — per qualche tempo fu ospitato nella loro cappella di famiglia. Ci piace immaginarli insieme in Paradiso, seduti al bar e circondati di ballerine anni Quaranta. Christian è un grandissimo talento, ho una passione sfrenata per lui come cantante».

Voi tre in gita a Venezia. «Primi anni Ottanta. Partiamo io, Christian, Carlo e le nostre rispettive mogli, soggiorno all’hotel Excelsior. Io e Carlo scendiamo a prendere i lettini da sole, il bagnino ci viene incontro raccontandoci di aver conosciuto tanti attori famosi, prima di noi, Sordi, Gassman, Monica Vitti. “Eh, però sapeste che tirchiacci, non lasciavano mai la mancia, quante maledizioni gli ho mandato”. Da quel momento spendemmo un patrimonio in mance, perché non si sa mai...».

I critici storcevano il naso. «All’inizio ci trattarono molto bene, poi il nostro successo ci attirò un pregiudizio ideologico. Abbiamo raccontato gli anni Ottanta come nessuno, l’epoca di Craxi, della Thatcher, di Berlusconi con le sue tv, ci accusavano di essere i loro cantori, invece prendevamo in giro un certo mondo, la Milano da bere di Yuppies e la Roma cafona di Vacanze di Natale . Adesso c’è la fase del culto esagerato, terrificante... di buono c’è che spesso ti permette di non pagare al bar».

Ogni sera, alle 18 le notizie più importanti della giornata

Autorizzaci a leggere i tuoi dati di navigazione per attività di analisi e profilazione. Così la tua area personale sarà sempre più ricca di contenuti in linea con i tuoi interessi.