La donna che ha documentato la Grande Depressione

2022-07-02 01:08:48 By : Mr. Tina Xu

Il sole alto nel cielo rendeva l’aria polverosa e secca, e il terreno tutt’intorno era ricoperto di sterpaglie non meglio identificate. Di tanto in tanto, qualche ammasso di rifiuti lungo la strada indicava che il campo era vicino. Sembrava che Hansel e Gretel in persona ci avessero lasciato una scia di vecchi pneumatici scassati, assi di legno scheggiate, bottiglie rotte e luridi stracci per guidarci. Se l’agenzia governativa non aveva mai messo a budget un fotografo, forse un motivo c’era… Magari i migranti avrebbero reagito con ostilità all’idea di farsi fotografare, chissà. Mi morsi il labbro. Che cosa avrei trovato? 

Nel giro di qualche minuto giungemmo a un mucchio di baracche e rallentammo fino a fermarci, poi spegnemmo il motore. Nell’aria fluttuava un odore di olio da cucina bruciato. Gli uomini si misero a parlottare tra loro mentre io sporsi la testa fuori dal finestrino, esaminando quelle casupole costruite con tela cerata, scatoloni aperti, sterpaglie secche e lamiere ondulate. All’esterno di una di esse, una donna smunta con un vestito di calicò sbiadito posò un piatto su una cassa rovesciata che fungeva da tavolo. Quattro bambini sciamarono fuori dalla baracca e cominciarono a mangiare prendendo il cibo con le mani. Non riuscivo a capire che cosa avesse servito loro, ma, qualunque cosa fosse, ne inspirarono l’aroma e poi se lo ficcarono in bocca. La giovane madre li osservava impassibile. 

«Lei e Ed cominciate a perlustrare la zona, mentre io faccio qualche domanda in giro. Fate del vostro meglio, intesi?» mi disse il dottor Taylor dal sedile davanti. 

«D’accordo, dottor Taylor. Mi porto solo una macchina fotografica.» 

«Ottimo. E, per favore, chiamami Paul.» 

Annuii e sorrisi; optai per la Rolleiflex, più leggera e meno ingombrante della Graflex. Scendemmo dalla macchina e Paul si avvicinò a un anziano che era uscito dalla sua baracca fatiscente per osservarci. «Buongiorno, signore» gli disse togliendosi il cappello, «per caso sa dove possiamo fare gasolio nei paraggi?» 

«Tu chi sei?» mi chiese un altro accanto a lei. Avrà avuto cinque anni e, benché soffiasse un vento gelido, non indossava nulla sotto la salopette di jeans. 

«Mi chiamo Dorothea Lange.» Considerai l’eventualità di aggiungere altro, ma non fu necessario perché quel piccoletto si affrettò a rispondere. 

«Io sono Tommy e questa è Hildy.» Poi indicò un altro bambino che, a gattoni, girò dietro il fianco in tela cerata di una baracca. «Lui è Bert, il mio fratellino.» Il più piccolo ci guardava succhiandosi il pollice. Cercai di non pensare a quanto fossero sporche le sue manine. Era circondato da un nugolo di mosche, che gli si posavano sulle ferite lungo gli avambracci gracili, ma lui non si dava nemmeno la briga di scacciarle.

Cercai di cogliere ogni dettaglio: i piatti impilati con cura accanto all’entrata, i panni stesi ad asciugare sul filo, le latte d’olio sparpagliate vicino al fuoco. Dopo qualche minuto, Ed e io ci congedammo e andammo a cercare Paul. Stava ancora parlando con lo stesso vecchio di prima, che mi salutò con un cenno del capo. Lo presi come un segnale e gli scattai qualche foto. Dopo un po’, Paul si alzò, gli diede la mano e se ne andò. 

Da “La verità di un istante” di Elise Hooper, t raduzione di Valeria Bastia (Harper Collins), 415 pp, 18,05 euro

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