La pancia di Babbo Natale e il corpo ideale dei maschi

2021-12-29 21:47:36 By : Ms. Xixi L

Babbo Natale è grasso. Perché? Nella galleria di moralizzanti figure nordeuropee in cui radica la sua mitologia, originata dalla generosità del turco San Nicola (magro, in certe rappresentazioni anche nero), la stazza non aveva davvero un ruolo: è entrata nell’iconografia corrente dal tardo Ottocento, originariamente per mano dello stesso influente illustratore americano che popolarizzò l’immagine ora invalsa dello “zio Sam” e ideò, per il partito repubblicano, il simbolo dell’elefante.

Si chiamava Thomas Nast e calcava in realtà piuttosto la mano su altri elementi riconoscibili ormai cristallizzati: le renne, la barba, il cappello. La pancia, ancora oscillante nei suoi disegni, si è poi assestata su prominenti dimensioni man mano che cambiava la funzione del Babbo stesso, facendosi cifra essenziale della sua gioviale generosità maschile di nonno energico, operoso, nordico e munifico.

Una leggenda vuole che l’abito rosso e bianco con stivali da neve fosse stato frutto della propaganda primo-novecentesca di Coca-Cola, ma non è vero.

È vero invece che la pancia di Babbo Natale non si manifestava granché prima della seconda rivoluzione industriale, nelle epoche in cui le varie incarnazioni letterarie e folkloristiche di questo paterno patrono del dare somigliavano marcatamente alle figure di un venerabile vescovo, di un’elfica creatura soprannaturale o di un amabile artigiano, a seconda delle comunità che le coltivavano e trasmettevano ai propri bambini stabilendo un immaginario maschile dal potente ascendente – quell’assente ma onnisciente autorità, d’altronde, sorveglia, giudica, dona e perdona.

Esiste in realtà un proto-Babbo grasso già tardo-settecentesco, di nome Sinterklaas (da cui l’americano Santa Claus? entrambe distorsioni transatlantiche, suppongo, di Saint Nicholas?), che serviva a deprecare gli eccessi natalizi degli immigrati olandesi in Nordamerica. La sua pancia, tuttavia, era appunto un sintomo di nequizie, una cosa di cui vergognarsi.

La pancia del Babbo odierno, codificata negli scorsi due secoli di capitalismo occidentale, è invece un tratto positivo, rassicurante. Non è il ventre teso del vizio ma quello morbidoso del benessere, dell’abbondanza: una pinguedine in cui sprofondare con fiducia.

Il più potente avversario di Goku nell’intero universo mondano e oltremondano di Dragon Ball Z è Majin-Bu. Su Italia Uno, nei primi anni Duemila, ci misero qualcosa come venti puntate per farlo emergere dal guscio millenario in cui lo aveva saggiamente confinato uno stregone, preparando noi ragazzini appassionati di arti marziali a una nemesi veramente epocale, capace di soppiantare i già epici Freezer e Cell.

Grande fu il nostro sgomento quando, dall’uovo prigione, fece capolino un pacioso panzone rosa, con le guanciotte. Si sarebbe poi evoluto in forme più smilze e muscolari, certo, ma nel corpaccione delle origini esprimeva già tutta la sua apocalittica potenza distruttiva di boss finale: oltre a picchiare forte, compieva genocidi trasformando popoli interi in cioccolatini, che poi divorava, e anche il più potente dei cazzotti volanti affondava nella sua massa elastica rimbalzando senza effetto.

Akira Toriyama, il creatore del cartone, dopo aver esaurito, lungo centinaia di episodi, forme sempre più parossistiche della minaccia a mani nude (il palestrato basic, il mago che ti mena, l’imperatore alieno, i vari cyborg, il mostro verde) aveva raggiunto la soglia estrema della parodia: ci chiedeva di credere che, all’apice della forma fisica immaginabile, i nostri eroi body builder si ritrovassero alle corde contro un gioioso ciccione antichissimo e bambinesco, la cui antenna sul capo (ora che ci penso, un po’ simile al cappello di Babbo Natale) riduce gli avversari, tanto più culturisti, in inermi dolciumi. E se li pappa, letteralmente, ingrassando vieppiù.

A un certo punto, più o meno cento anni prima di Dragon Ball, il più famoso artista del mondo, Auguste Rodin, fu incaricato di realizzare un monumento in memoria di Honoré de Balzac, il grande autore della Comédie humaine.

La scadenza prevista era di diciotto mesi ma Rodin, ossessionato dal genio dello scrittore che era chiamato a immortalare, ci lavorò per sette anni.

La committenza si aspettava forse uno dei gagliardi maschi di bronzo e marmo che lo scultore, allora famoso per i suoi titani michelangioleschi, copiava dai corpi (ai suoi occhi selvaggi) di villani italiani, pescati nelle campagne abruzzesi e portati a Parigi a posare per statue di San Giovanni Battista, o rappresentazioni assolute del più squisito primitivismo barbaro.

Il corpo di Balzac, però, era assai diverso. Aveva la pancia. Può avere la pancia un eroe nazionale, quando lo si fonde nel bronzo per issarlo su un piedistallo a imperitura memoria? E d’altronde, se la ragione per cui lo si mette lassù è che si è inventato il realismo europeo, si può omettere la pancia che esibiva in ognuna delle sue fotografie?

Nel dubbio, Rodin finì per presentare una statua quasi impressionista, quasi astratta, né reale né ideale, in cui Balzac sprofonda dentro a un ampio cappotto liquido (che camuffa e rivela il ventre) da cui emerge, con alterigia da Farinata degli Uberti nell’Inferno dantesco, la dritta testa possente dello scrittore, incorniciata dalla pappagorgia.

La committenza, al cospetto di tale pazzesco pupazzone di neve al sole, rimase sgomenta come noialtri ragazzini di fronte alla ciccia rosa di Majin-Bu. Ma fu meno generosa, meno curiosa di noi. E lo bocciò, destinandolo a essere realizzato in bronzo ed esibito pubblicamente come monumento solo dopo la morte di Rodin.

Babbo Natale, insomma, metteva pancia nelle réclame e nei libri per bambini proprio negli anni in cui, nel suo atelier parigino da star dell’arte, Rodin ragionava sulla pancia di Honoré de Balzac – che in certi bozzetti per il monumento pare, appunto, un Babbo Natale cattivo.

Con Google immagini è facile trovarli: poderosi Balzac pancioni e nudi, con le gambe ben piantate in terra ma in movimento, come quelle dell’indecifrabile uomo metallico delle Forme uniche futuriste di Umberto Boccioni. Alcuni di quei bozzetti non hanno nemmeno la riconoscibile faccia baffuta di Balzac: sono studi solo del suo corpo, a volte anziano e a volte vigoroso, sempre panciuto e virile, terribile.

Scorrendoli sull’iPad mi viene in mente il peplum italiano forse più brutto di sempre: Maciste contro i cacciatori di teste, in cui gran parte delle comparse a torso nudo sono talmente fuori forma, con corpi da tutti i giorni, da far apparire ridicoli i muscoli dell’eroe che finge di sforzarsi nel combatterli.

A quel filmaccio pieno di signori in mutande picchiati da un oliato atleta è dedicato un episodio anni Novanta di Mystery Science Theater 3000, la leggendaria serie comica americana ora su Netflix, che resterà nella storia per aver coniato l’espressione “dad bodies”, corpi da babbo, recentemente popolarizzata nell’abbreviazione dad bod.

Quella del dad bod è una galassia di devianze dalla perfezione vitruviana del corpo snello e cesellato del maschio ideale che va da Balzac a Majin Bu. È un ventaglio di maschilità normali, mature, morbide. Un po’ semplificato da noi, dove banalmente l’uomo de panza è uomo de sostanza, ma investigato ormai non poco nell’immaginario americano che ha fatto dell’icona del consumismo un babbo serenamente grasso (e ha forse più edipici “daddy issues”, come si dice).

Nell’ultimo Avengers compaiono i due poli di questo spettro: quello allegro e addirittura ignaro di Star-Lord, cui il procione spaziale fa notare che è un falso magro, e quello depressivo di Thor, la cui divina massa muscolare è decaduta in un pancione da birra e poltrona. Il terzo esempio è quello del paterno antagonista, Thanos, che mette a cuccia persino Hulk e infine si ritira in pensione su un pianeta remoto, cucinando gli ortaggi del suo giardino e generando meme online che lo trovano sexy proprio perché massiccio.

Qualunque sia l’orientamento sessuale di chi guarda, il corpo da babbo è da qualche tempo passato dall’essere un dato di realismo, come nei Balzac di Rodin, a una incarnazione della maschilità preferibile agli ideali atletici di un aggressivo Maciste, di un troppo giovane e inconsistente Spider-Man. Mi domando se Thor tornerà magro nell’imminente suo nuovo film. E se non sia radicale dipingere smilzo Babbo Natale, ora che i suoi elfi sono denutriti schiavi di Amazon privati del diritto di scioperare. Auguri!

Professore di letteratura italiana al Bryn Mawr College, negli Stati Uniti. Con Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja (edizioni del verri, 2014) ha vinto l’Harvard Edition dell’Edinburgh Gadda Prize. Nel 2018 ha pubblicato con Marsilio il romanzo-saggio Una serie ininterrotta di gesti riusciti: Esercizi su Il grande Gastby di F. Scott Fitzgerald.