I delfini nuotavano lontano dai vortici dei canonici - ilGiornale.it

2021-11-16 23:18:15 By : Mr. Leo Zhou

Eccentrico rispetto sia all'avanguardia che alla tradizione, era un cabalista di parole. Aveva solo due miti: Leopardi e il suo antenato Pico della Mirandola

Si tolse per un anno - "era nato a Modena il 10 giugno 1908", scrive nella nota ai suoi libri - senza altra abitudine che un candido disprezzo, il piacere di fare del tempo un bidet, sputando sull'Euclideo geometria della vita quotidiana. Ah... dovremmo rivivere eternamente la vita di Antonio Delfini, farne un calco, un idolo, un mausoleo: è l'emblema dello scrittore, una tigre della Bassa - come quelle dipinte da Ligabue -, estremista della solitudine, autore , sempre, di libri unici - quindi introvabili, irraggiungibili. Ha scelto, per criterio cristico, Antonio Delfini - nome azzurro che sembra una capriola - per perdere tutto. Rampollo della nobiltà terriera modenese, cresce senza padre, con una madre che "non sapeva usare il telefono, non usava il treno... non riusciva a sostituire una lampadina"; era un autodidatta in tutto, quindi un pioniere, "da bambino non andavo a scuola... mi iscrissi a dodici anni alla trave, che trovavo molto più divertente". A Parigi, nel 1932, toccò André Breton: tanto da importare in provincia il surrealismo, scuotendolo nel fango del Po. violento.

A Telesio Interlandi, allora direttore de Il Tevere, confessò il suo "chisciottesco chiassoso". Ha ideato riviste per il gusto sontuoso di vederle fallire: nel '27, con Ugo Guandalini (o Guanda), L'Ariete che "ha avuto la vita di un numero"; nel '28 Lo spettatore italiano, che "è durato qualcosa di più: cinque numeri". Quando, nel 1952, fondò Il Liberale, periodico politico indipendente stampato a Viareggio, Delfini era ormai un uomo che fondeva l'epopea del disastro con la sua energica energia irriverente. Si è scagliato contro i "mostri melliflui, ipocriti e sibariti" che inghiottono la nostra vita politica. Si era schierato con il movimento di Unità Popolare: "come candidato ha fatto l'attaccante, l'oratore, l'attivista", ricorda; ha ottenuto 630 voti. L'anno prima aveva pubblicato con Guanda il memorabile Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia. A Roma era stato alla corte dell'amico Mario Pannunzio, ma non sopportava l'arroganza della capitale; a Firenze frequentava le Giubbe Rosse, quella gremita di Montale, Gadda, Luzi, Carlo Bo, ma ci andava di notte, era rattristato dagli "illustri signori che vi venivano". Ha preferito litigare con Tommaso Landolfi, "Credo che pochi scrittori abbiano odiato altri scrittori come li ho odiati io", scriverà più avanti.

Aveva due fari, due miti: Leopardi, il modello letterario ("Ho iniziato a leggere Leopardi - Zibaldone - con il quale speravo di imparare a scrivere") e Giovanni Pico della Mirandola, suo antenato (così diceva, dando alchimia alla menzogna ). Delfini era, infatti, un cabalista del verbo, capace di forgiare anatemi tremendi ("È la grande moda democristiana: / restare vergine ed essere puttana": per Bassani sono santissime le sue Poesie della fine del mondo "blasfemia") e mirabili rebus. La più nota è quella che chiude La memoria del basco, una sconcertata ed esotica, bellissima storia tra Gauguin e Christopher Nolan, "Ene izar maitea / ene charmagarria...: una cobla in lingua basca, come rivela Giorgio Agamben - delfinologo del platino -, dalla lirica cristallina, «Mia amata stella / mia maga...».

La memoria del basco, soprattutto, è il capolavoro di Delfini: una raccolta di storie esemplari, di bellezza esasperata, fuori dal tempo, una cronaca impazzita della città di M*** ("piccola città di provincia" che adombra Modena), pubblicata nel 1938 da Parenti, Firenze, ripubblicato nel 1956 da Nistri-Lischi, Pisa, ristampato nel 1963 da Garzanti, con il quale Delfini vinse il Premio Viareggio. Postumo, certo - te lo immagini, Delfini che fa il chierichetto a un premio letterario italico? -, perché Delfini, pare strano, morì, nel febbraio 1963, per scherno della sorte ("voleva fare l'ultimo scherzo", scriveva un amico). Oggi quel libro torna, con il titolo I Racconti (Garzanti, pagine 336, 25 euro), a cura di Roberto Barbolini, modenese discepolo di Delfini, autore anche di libri per lo più inclassificabili. «Il bello di Delfini è che non appartiene a nessun canone», mi dice Barbolini appena lo prendo in giro. «È una specie di monolite piovuto chissà dove, eccentrico rispetto all'avanguardia e alla tradizione. Se fosse possibile inserirlo in qualche scatola prefabbricata sarebbe uno scrittore uno contro tutti, uno di quei grandi irregolari che ci sono indispensabili».

Il rischio è piuttosto quello di fare di Delfini un minore, un superuomo di provincia, incapsulato nell'autentico controcanone del nostro Novecento (Landolfi; Manganelli; Piovene; Parise; Berto; Pomilio). Non è così. Delfini è autarchico, autoritario, atrofizzato altrove; è il fondatore di una nuova geografia letteraria. Ha scritto l'incipit più bello di sempre ("Se avessi avuto altri amici, o non li avessi avuti affatto, sarei diventato un grande narratore, prima della caduta del fascismo; e dopo sarei rimasto"), il bellissima chiusura ("Poi lentamente tornò a sedersi nella sua morbida poltrona a fiori. Sul letto la coperta di pizzo bianco era ingiallita e puzzava solo a guardarla. Adoro Il Contrabbandiere", un certo poeta, un uomo forte e corporatura eccezionale, bello nell'insieme anche se la durezza dei suoi lineamenti e l'aspetto un po' cupo lo facevano sembrare brutto, detto Maltinor". Secondo Luigi Mascheroni, la storia di maggior successo di Delfini è La modista; secondo Barbolini - che si schiera con il giudizio di Cesare Garboli - è del 10 giugno 1918: "Racconta il peregrinare in bicicletta del bambino Delfini per le strade di Modena nel giorno del suo decimo compleanno, tra funerali e festeggiamenti per la vittoria nella Grande Guerra, e si conclude con quelle sogni di ferro, di sangue, o f morte, d'amore e di pietà che prefigurano il futuro fallimento esistenziale dello scrittore», mi dice. Preferisco Caterina che detta la morte, la storia - ovviamente mai scritta - di quella "anziana di oltre novant'anni" che "circola da tempo immemorabile intorno al Duomo di Modena" e "ripensa la vita di tutti i personaggi rappresentati in le sculture di Wiligelmo e le mette in relazione con la vita di quegli esseri viventi che vede passare davanti a lei». Caterina ha «immagini di sconfinata dolcezza», nei suoi occhi «tutte le azioni, anche le più brutte, diventano dignitose». d'altra parte, solo attraverso la ferocia è possibile toccare lo splendore. Odiava il buon gusto, la disumanità dei codardi, i Delfini. Amava disperatamente, morì derelitto o quasi, riappare spesso nei meandri dell'editoria per annegare ancora, soddisfatto di indifferenza, nel nulla. Nei suoi racconti gli incontri sono assoluti, come una chiazza di vetro conficcata nell'occhio. E la nostalgia - quel risorgere dell'anima - è vasta come la pianura intorno al Po, da cui la nebbia, verde e bituminoso, che lecca tutto, annienta tutto, si diffonde - e, infine, moriamo.