I libri di NRW: La voce dell’Elefante - Nuoveradici.world

2022-10-01 14:37:40 By : Mr. Carl SPO

Questo romanzo profuma di buono. Profuma di noce moscata, tamarindo, burro di karitè e di tutte le spezie che ci regala l’Africa. Profuma pure di consuetudini familiari, di legami intrecciati e stretti, di una storia che spesso non conosciamo, dei rapporti tra Senegal e Guinea. Due Paesi, ai nostri occhi occidentali, che ci paiono uguali, dello stesso colore. Nelly Diop, nata in Senegal dove si è poi laureata in Civilizzazione e Letteratura americana all’Università di Dakar, da anni in Italia dove lavora come insegnante di inglese e traduttrice, per questo suo primo romanzo, La voce dell’elefante pubblicato da Atmosphere Libri, ha intinto la penna nell’inchiostro della memoria e delle radici, mai troppo lontane da essere dimenticate. Ne è uscito un ritratto familiare e generazionale con alcuni risvolti inaspettati, alla fine come la vita stessa di chiunque. Protagonista, o meglio guida del libro, è Bintu, non più bambina, quasi adolescente, nell’età difficile in cui ogni domanda merita una risposta. E se gli adulti non sono in grado di fornirle non c’è che andarle a cercare. La sua vita è fatta delle cose normali di ogni adolescente, i rapporti con gli amici, la scuola, qualche conflitto in famiglia. Il legame più forte è con la nonna con la quale condivide le emozioni legate all’ascolto della voce dell’Elefante, il presidente della vicina Guinea, che arriva via radio. Bintu ne è come ipnotizzata e non sa ancora perché. La nonna ne è quasi sconvoalta, preda di sogni in cui a voce alta rievoca un passato che pochi conoscono. Bintu ne vorrebbe sapere di più, ma le regole familiari le impediscono di parlare con gli adulti degli argomenti appunto da grandi. Sarà lei stessa, in occasione di una visita dell’Elefante in Senegal, ad iniziare a sollevare il velo sulla storia assai dolorosa che lega la sua famiglia agli eventi politici di quei primi Anni Settanta, dove le tradizioni e le divisioni di due famiglie in lotta tra Senegal e Guinea, seguono l’era della indipendenza dal colonialismo dei Paesi dell’Africa moderna. Fabio Poletti Nelly Diop La voce dell’Elefante 2022 Atmosphere Libri pagine 146 euro 16

Per gentile concessione dell’autrice Nelly Diop e dell’editore Atmosphere Libri pubblichiamo un estratto dal libro La voce dell’elefante. Il caldo buttava le persone fuori dalle loro case. Si cercava un sollievo, un po’ di frescura prima di andare a letto. Bintu si era sempre chiesta perché in un paese così caldo si costruivano case con finestre minuscole. Probabilmente per non lasciare che i raggi del sole entrassero, ma allo stesso tempo si impediva all’aria, quando c’era, di circolare. Ripensò alla prima notte passata con la nonna. Non c’era la corrente elettrica in camera. Questa era stata la sua prima osservazione. La penombra. Aveva imparato presto come accendere la lampada a petrolio. Aveva imparato ad amarla. La chiamava “la luce che ingrandiva le ombre”. Timida all’inizio, aveva rivelato la pulizia dei luoghi e la sobrietà dei mobili. Pà Omar aveva cercato di arredare la camera al meglio con i suoi pochi mezzi. Oltre al letto c’era un tavolo di compensato sul quale Nagnouma posò la cena. Sul tavolo erano appoggiati anche un piccolo fornello con del carbone, una casseruola per riscaldare l’acqua, un thermos, del caffè, dello zucchero, due tazze di plastica, due cucchiai, un mangianastri. Sull’angolo a sinistra della porta, un piccolo secchio di plastica con sapone e spugna per i piatti, un satalà, contenitore smaltato a forma di grossa teiera che serviva per fare le abluzioni, e un enorme recipiente panciuto chiamato dàa, in terracotta, per l’acqua fresca da bere. Nagnouma ci metteva il gongoli, una radice che purificava l’acqua e le conferiva un gusto gradevole ma mai come quella del suo paese. Vicino c’era la stuoia arrotolata, messa in piedi proprio nell’angolo affinché non cadesse. La nonna prese il satalà e l’acqua dal rubinetto del cortile e fece le abluzioni. Bintu la seguì qualche minuto dopo. Dopo la preghiera mise il canovaccio, servito ad assicurare la stabilità del cibo sulla testa, al centro della stuoia stesa sul linoleum e si sedettero per mangiare con i riti abituali. «Bismillahi». Iniziarono a mangiare. A fine pasto, Bintu raccolse il piatto e il grosso bicchiere di plastica per lavarli, sempre nel cortile, e rientrò. La nonna non voleva che i resti della cena attirassero scarafaggi e altri animaletti durante la notte. Ce n’era già qualcuno, notò Bintu. Aveva imparato a riconoscere nel buio gli scarafaggi e i piccoli roditori. Sopportava i roditori, ma appena il fruscio somigliava a quello di uno scarafaggio svegliava Nagnouma, che riaccendeva la lampada a petrolio, si muniva di un’infradito, e cercavano insieme l’insetto. Finché Nagnouma non lo aveva portato fuori dalla stanza, morto stecchito, Bintu non si rimetteva a letto. Lo sapeva così bene che quando veniva svegliata non protestava più. Era meglio trovarlo e farla finita. Nagnouma posò il vecchio mangianastri vicino alla stuoia e si sedette appoggiandosi al letto, da sotto il quale prese delicatamente una scatola di latta arrugginita, color avorio. Era piena di cassette di musica del suo paese. Tradizionale o moderna, a seconda del suo umore. Alla luce della lampada scelse con calma. Mise una cassetta di Bembeya Jazz. Bintu andò a lavarsi i denti e dopo essersi messa la T-shirt e il pareo per la notte si sdraiò con la testa sulla gamba della nonna. Non era ancora il momento di coricarsi ma di ricongiungersi con i suoni gradevoli di Laguinè, come la chiamava Nagnouma. Avvicinò il suo indice corto e irrobustito da anni di lavoro nei campi e spinse su play. Dopo un breve Sshshhsshh partì il suono quasi soffocato della musica, sembrava uscire da un tubo. La chitarra elettrica. Fine. Limpida. Melodica. Dava sempre il via. Indirizzava e sosteneva tutti gli altri strumenti compresa la voce del cantante. Ghermiva l’attenzione dell’ascoltatore con degli assoli nel bel mezzo della canzone, poi si addolciva e riprendeva il suo ruolo di accompagnatore, di guida, fino alla fine. Il basso, la bussola dei musicisti, faceva le veci del dundumba, il grande tamburo maestoso. Trovava divertente la canzone Mami Wata, la djinamuso, la djinn dell’acqua, bella, chiara di pelle, con forme sinuose e capelli lunghi fino ai fianchi che ammaliava gli uomini, li faceva innamorare e li abbandonava impazziti di dolore. Whisky Soda la faceva letteralmente morire dal ridere. Aboubacar Demba Camara imitava a volte la voce di Louis Armstrong, a volte il singhiozzo dell’ubriaco, con la voce nasale e le parole indistinte, senza senso dei dolomina, gli amanti del dolo, l’alcol. I pezzi che duravano sette o otto minuti raccontavano una storia e davano a Nagnouma il tempo di spiegarle ciascuna canzone anche quando ormai ne capiva già il tema. Ogni tanto era lei, Bintu, a fare domande su alcuni termini che le sfuggivano. La voce del cantante mescolata a quella della nonna la coccolava. Davanti ai suoi occhi sfilavano parole, paesaggi e suoni che non aveva mai conosciuto di persona ma che la sua fervida immaginazione tentava creare. Come poteva provare un senso di pace così forte attraverso cose che in realtà non le erano familiari? «Bintu, Bintu, sali sul letto…» Era Nagnouma che cercava di prenderla in braccio scordandosi della sua età. Camminava in una foresta piena di alberi e di suoni strani. Una signora anziana era con lei. Non ne vedeva il viso. Erano tutte e due fasciate da un pareo bianco immacolato. «È qui. Siamo arrivati» disse la donna quando raggiunsero una spianata. Aprì una grande stuoia in fibre di cocco e la sistemò sulla terra pulitissima di un rosso intenso. «Stenditi». Bintu obbedì. L’altra iniziò ad avvolgerla nella stuoia. Solo la testa e i piedi rimasero fuori. L’anziana prese una corda, sempre in fibre di cocco, e la legò, poi mormorò: «È finita». Si girò e fece per andarsene. Bintu cominciò a urlare. Le sue urla si confondevano con un’altra voce che pronunciava un nome. Molto flebile in principio, la voce rotta dal pianto si mise a gridare: «Karamokho, Kara!» Bintu sussultò. Nagnouma aveva il braccio intorno alla sua vita, la bocca all’altezza dell’orecchio. Tolse piano il braccio della nonna, si girò e le toccò la spalla: «N’na? N’na?». Nagnouma reagì con un «Mmm…» e si girò dall’altra parte. La bambina non riusciva a riaddormentarsi. Non riconosceva quel tormento nella voce della nonna. Chi era questo Karamokho? Rimase con gli occhi spalancati nel buio. Avrebbe sentito più volte la nonna pronunciare quel nome negli anni a venire. Una luce timida e sfocata si fece strada tra le griglie in legno delle persiane. “Fra un po’ farà giorno” pensò. Si spinse addosso a Nagnouma e sentì le molle del letto scricchiolare. Chiuse gli occhi.   © 2022 Nelly Diop © 2022 Atmosphere libr

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