I libri di NRW: Le stazioni della luna - Nobileadici.world

2021-11-22 13:58:58 By : Mr. Ruby Lu

Questo è un libro sulle radici che non sono mai certe. E sugli "italiani brava gente" che occupavano la Somalia e un bel pezzo dell'Africa orientale cantando "Black Face", furono finalmente cacciati e restituiti negli anni Cinquanta, come fiduciari, per costruire l'architrave della società e dello Stato. Ubah Cristina Ali Farah, nata a Verona da madre italiana e padre somalo, cresciuta a Mogadiscio fino al 1991 quando fuggì dalla guerra civile, in questo Le stazioni della luna edito da 66THAND2ND, mette un bel pezzo della sua storia personale. Clara, la protagonista del libro, fugge da Mogadiscio nel 1941 all'arrivo degli inglesi, fugge in Italia, incapace di placare la nostalgia di quando affondò con i piedi nella sabbia calda del suo paese. Tenere insieme le sue radici somale e italiane è la sua forza. Il rapporto con Ebla, la sua mamma da latte africana, che ha vissuto sulla sua pelle scura le sferzate del peggior colonialismo, oltre che brave persone italiane, alza il sipario sullo scenario politico e sociale di un Paese calpestato dagli stivali delle milizie fasciste , che poi riappaiono anni dopo in abiti eleganti e scarpe di vitello lucente, a fungere da amministratori e garanti della ricostruzione. Un romanzo che è anche un saggio politico, su un aspetto della nostra storia di colonizzatori italiani che si fa finta di non ricordare, colpevoli nascosti in poche righe sui libri di scuola. Fabio Poletti Ubah Cristina Ali Farah Le stazioni della luna 2021 66THAND2ND pagine 208 euro 16

Per gentile concessione dell'autrice Ubah Cristina Ali Farah e dell'editore 66THAND2ND pubblichiamo un estratto dal libro Le stazioni della luna. Dalla nave, Mogadiscio brillava di un bianco brillante, come il bordo frastagliato di una conchiglia. La superficie luccicava d'argento e una striscia di sabbia bianca correva lungo la costa. Minareti spuntavano esili sopra gli edifici e, in lontananza, si distingueva il formicolio del porto, i frenetici preparativi per lo sbarco. Il fondale era irto di scogli e serviva una gru per calare i passeggeri dal ponte, in piedi dentro un grande cesto, sul fondo di una maona. La maona era ferma sul fianco della nave e, non avendo chiglia, poteva passare ovunque. Aveva bordi alti incrostati di sabbia e corallo, lunghi sedili e diversi appigli a cui aggrapparsi. L'oceano sembrava calmo sotto lo scintillio del cielo, ma dovevi resistere per evitare di urtare il tuo vicino. Le onde si gonfiavano a volte e poi una raffica di spruzzi ha colpito i passeggeri. Clara si premette il cappello di paglia dietro il collo e sentì il sole scaldarle le braccia. Per molto tempo aveva sognato questo ritorno nella sua città natale e ora era emozionata, quasi stordita, piena di aspettative. L'odore di salsedine e l'aria satura e umida la fecero sentire subito a casa: il cotone della camicetta le aderiva al seno e le pieghe della gonna le restavano intrappolate tra le gambe. Ad attenderla, sul molo, riconobbe subito Haajiya. Erano passati quasi dieci anni dall'ultima volta che si erano visti, eppure lei era rimasta la stessa, se non fosse stato per la ciocca grigia che le sfuggiva dal velo. Aveva ancora mani forti e il fisico snello di chi è sempre in movimento. "Chiara!" urlò riconoscendola tra gli altri passeggeri, i suoi inconfondibili capelli rossi raccolti in una coda di cavallo. Clara le corse incontro con un affetto quasi infantile, perché così la faceva sentire Haajiya, una bambina. «Vieni ad abbracciarmi» esclamò la suora visibilmente commossa e, dopo averla stretta a lungo, aggiunse: «Sediamoci tranquilli e chiacchieriamo da qualche parte, potrebbero volerci secoli per i bagagli». Molti erano gli indaffarati camalli sulla banchina e le chiatte continuavano ad attraversare in lontananza. Piccoli gruppi di bambini coperti di stracci chiedevano l'elemosina, e qua e là spiccava la sagoma di mercanti indiani vestiti di bianco. Nella confusione, i giovani dalla pelle olivastra gesticolavano in segno di protesta, così come gli uomini più grandi e robusti con il collo gonfio che spuntava dalle loro camicie aperte. Eppure, quella languida lentezza del procrastinare, quell'immobilità caotica erano per Clara fonte di più conforto che fastidio, come se bastassero da sole a riportarla indietro nel tempo. I minuti volarono oltre Haajiya. Ridevano ricordando quando, ancora bambina, balbettava leggermente ogni volta che la suora l'accompagnava a recitare il rosario. Clara insistette per chiederle chi fosse Dio Creatore e la donna non rispose mai chiaramente, disse solo che Dio era quello raffigurato nel quadro gigante appeso dietro l'altare. A Clara sembrava che il quadro fosse piuttosto l'immagine suggestiva di padre Francesco, un vecchio missionario un po' gobbo con una lunga barba bianca, e poi Haajiya ha ribadito che Dio è anche in tutte le cose: nel cielo stellato, nelle campane gialle, nel cavalluccio marino; in breve, in ogni essere della creazione. Finalmente, dopo un'attesa durata meno del previsto, riconobbe il suo baule tra quelli depositati dai facchini sulla banchina. Il coperchio era ricoperto da strisce di cuoio. Era lo stesso baule che aveva quando era stata costretta a lasciare la città, molti anni prima, insieme alla madre Margherita e al fratello Enrico. All'interno, Clara aveva sistemato non solo i suoi vestiti estivi, stirati e vestiti con cura dalla madre, ma anche alcuni romanzi, il libro Cuore e una copia di Radiant Dawn, la prima filiale italiana per i somali. In copertina un panorama di Mogadiscio: il sole stava sorgendo all'orizzonte e un bambino sorrideva in primo piano con un grosso volume sotto il braccio. C'erano anche medicinali per l'infermeria - medicinali rari e miracolosi in Somalia come chinino, penicillina, mercurocromo e aspirina -, alcuni articoli da toeletta e un piccolo quadro piastrellato avvolto in carta di giornale. L'immagine, bordata di nontiscordardime e margherite, aveva inciso le parole di una preghiera. Era stato Haajiya a darglielo molti anni prima. Clara l'aveva sempre tenuta appesa alla testiera del letto nelle varie case dove aveva abitato. Ogni sera, prima di addormentarsi, si inginocchiava con le mani giunte e recitava a memoria: «O Signore grande e buono, Tu sai che anch'io ci sono; Tu che vesti il ​​fiorellino, che dai le ali all'uccellino, rendi felici papà e mamma, fa' che la fiamma brilli ogni volta sul focolare quieto e che tutti sanno amare”. Ora finalmente il quadro era tornato a Mogadiscio, insieme con il suo proprietario © Ubah Cristina Ali Farah, 2021 © 66THAND2ND 2021

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